| masoki |
| | triste.................... Ciao Robin ................ un lungo articolo pubblicato su un gruppo di Dago su fb, direi perfetto Costantino Rossi 14 h · Il 17 ottobre scorso se n’è andato Robin Wood. Per i non addetti ai lavori fumettistici, questo nome può voler dire nulla. Ma forse, se nominiamo Dago, il suo personaggio più famoso tra le decine e decine (92, in totale) che ha creato, non pochi capiranno a chi mi sto riferendo. Dago si è talmente affermato anche nelle edicole italiane, che uno dei suoi disegnatori che più ne hanno caratterizzato la storia editoriale, il maestro argentino Carlos Gómez, ha realizzato una simpatica e significativa illustrazione nella quale si vede proprio Robin Wood, seduto mentre scrive le sceneggiature di Dago, con quest’ultimo che lo osserva, tra l’interessato e il perplesso, stando in piedi accanto a lui. Ho pubblicato proprio quel disegno in questo stesso post. Le avventure di Dago sono presenti ormai nel nostro Paese dal 1983, sulle pagine dello storico settimanale “LancioStory”, con grande successo, al punto che il character si è altresì meritato una edizione mensile monografica di sue ulteriori storie inedite, oltre che un nutrito numero di ristampe di quelle classiche. Le vicende di Dago sono imperniate su aspetti centrali e ben documentati della Storia europea del XVI Secolo. Nel suo vagabondare, infatti, egli attraversa il Mediterraneo con i corsari saraceni, diventando nemico/amico del celeberrimo pirata Barbarossa, partecipa all'assedio di Vienna, tenta di impedire il sacco di Roma da parte dei lanzichenecchi, conosce Hernán Cortés, Machiavelli, Benvenuto Cellini, Nostradamus, perfino il Conte Dracula, così come numerosi papi e sovrani, tra i quali Enrico VIII, Francesco I di Valois e Carlo V di Spagna. C'è anche un ampio capitolo nel quale Dago viene costretto a recarsi nel Nuovo Mondo, dove ritrova una sua vecchia conoscenza: Francisco Pizarro. Io debbo moltissimo a Robin Wood per tutto quello che mi ha insegnato e per le emozioni che mi ha fatto provare leggendo le storie che ha magistralmente sceneggiato. Ne ha scritte così tante, belle, epiche e toccanti da essersi meritato il soprannome di “La Leyenda” (“La Leggenda”, in italiano). Per me, Robin Wood è stato uno dei più grandi scrittori di fumetti della Storia della “nona arte”. Nel mio personale olimpo da appassionato, divide il primo posto assoluto solo con Gianluigi Bonelli, il creatore di Tex Willer. Tutti e due si spartiscono equamente la mia ammirazione e il mio amore, anche se Robin Wood rimane per me speciale, diverso, particolare. Giusto per citare una frase presa in prestito dal film del 1991 “Il principe delle maree”, diretto da Barbra Streisand, adattandola alla mia esperienza personale coi fumetti, “non è che io ami Tex Willer di più; semplicemente, lo amo solo da più tempo”. Così è per me. Scoprii Robin Wood negli Anni ’80 (Tex fu la mia prima lettura in assoluto nei primi Anni ’70), quando iniziai ad accorgermi degli ottimi fumetti maturi e impegnati del poc’anzi citato “LancioStory”. Su quel settimanale scoprii un modo completamente nuovo di scrivere e disegnare comics. Scoprii cioè che era possibile raccontare storie anche se non erano presenti supereroi monolitici ed imbattibili. Scoprii anche che, sovente, l’oggettività del narrato non prevedeva alcun “happy end” scontato, un po’ come capita nella vita reale. Soprattutto, scoprii la cosiddetta “Scuola argentina”, le relative “historietas” (in questo modo vengono denominati i fumetti nella stessa Argentina) e i suoi immensi autori: Hector G. Oesterheld, Carlos Trillo, Ricardo Barreiro, Alberto ed Enrique Breccia, Alberto Salinas, Horacio Altuna, Juan Zanotto, Arturo Del Castillo, Lucho Olivera, Enrique Alcatena, Domingo Mandrafina, Ernesto Garçia Seijas, Carlos Enrique Vogt, solo per citare alcuni nome tra i tanti. E, naturalmente, scoprii Robin Wood, il gigantesco Robin, che in quel mare di autori geniali si distingueva comunque come un diamante. Inizialmente pensavo non fosse nemmeno un autore, tanta era la mole di opere da lui scritte. Ritenevo infatti che si trattasse più di un team di sceneggiatori che di una singola persona, ma sbagliavo: Robin Wood esisteva, era unico nel suo genere, e sapeva scrivere tantissimi fumetti dannatamente bene. Da allora, non ho perso una storia di Wood e posso davvero dire che una discreta parte di come sono oggi lo devo anche a lui, oltre che a Tex Willer e a tanti altri personaggi che mi hanno portato con la fantasia in mille mondi immaginari (ma anche molto reali, vista la cura nelle ricostruzioni storiche che lo stesso Wood metteva) facendomi fare tantissime scoperte ed insegnandomi moltissime cose. Voglio ricordare Robin Wood con un estratto, in parte rivisto e aggiornato, di un saggio che ormai parecchi anni fa gli dedicò Luca Lorenzon, studioso di comics e scrittore. E voglio farlo anche con l’ausilio delle parole che gli ha significativamente indirizzato il nostro Ediberto “Edym” Messina, uno dei disegnatori che ha avuto l’onore e l’onere di raccogliere l’eredità e la sfida artistica di disegnare Dago dopo l’abbandono di Carlos Gómez, dedicatosi ad altri progetti professionali: “Robin Wood ci ha lasciato. Il papà di Dago e di altri eroi adesso viaggerà per sempre in altre dimensioni, così come ha sempre fatto”. Muchas gracias, Leyenda! ❤️ ROBIN WOOD: LA MAGIA, IL MITO, L’AVVENTURA Di Luca Lorenzon, pubblicato sul sito Internet FucineMute il 1° maggio del 2003. • Lo stile di Wood Quando il paraguaiano Wood fece la sua comparsa su “Lanciostory” il mondo delle nuvole parlanti nostrane era già stato scosso dalla ventata di novità giunta dalla Francia. Ma la rivoluzione della rivista mensile “Metal Hurlant” (e le sue appendici italiche) rinnovò soprattutto la sostanza delle storie, superando alcuni tabù e affrontando temi maturi. Per quel che riguarda la forma, dall’Incal a Tex le didascalie rimanevano comunque ancora una pletora di laconici e scontati “poco dopo…”, “giunti sul luogo dei fatti…”, “il terrore si dipinge sul volto dell’uomo”, “il nostro protagonista si chiama così e cosà, fa questo e quest’altro, ed in questa avventura…”, ecc. I grandi sceneggiatori argentini avevano adottato invece da decenni una scrittura più pregna, fluida e coinvolgente e, in anticipo sui tempi, potevano anche eliminare del tutto le didascalie. Da Oesterheld a Mazzitelli, le sceneggiature argentine hanno sempre avuto una notevole espressività: pensiamo agli ammiccamenti di Trillo, ai flussi di coscienza di Guillermo Saccomanno, alla fulminante secchezza di Barreiro. Addirittura, se confrontiamo il personaggio di Larry Mannino, il poliziotto di New York dello sceneggiatore Ray Collins (pseudonimo di Eugenio Zapietro) e del disegnatore Angel Alberto “Lito” Fernandez, con il suo omologo originale Precinto 56 (Distretto 56, nella versione italiana) scopriremo vari “aggiustamenti” eseguiti dall’Eura (meglio conosciuta anche come Lancio, la società editrice dei mitici fotoromanzi in bianco e nero degli Anni ’70, e da qui il perché del nome “LancioStory” del settimanale pubblicato dalla stessa azienda e dedicato solo ai fumetti) per smussare uno stile troppo in anticipo sui tempi nel nostro Paese, che contemplava anche comunicazioni dirette rivolte al lettore e molteplici stratificazioni di pensiero. Robin Wood si inserisce da par suo in questa tradizione, tanto da divenire un vero punto di riferimento per i colleghi. Così esordì in Italia, e fu amore a prima vista. Avvenne col primo numero di “LancioStory” dell’annata 1982; la serie era una delle sue opere capolavoro, Savarese. Siamo nel 1920, in Sicilia. I Savarese di Graziano sono una delle “famiglie” più importanti del paese. Tanto importanti e tanto odiati da finire trucidati da una famiglia rivale. Ma un Savarese si salva o, meglio, viene graziato a causa del fatto di essere giovanissimo e per il suo aspetto gracile e inoffensivo: quella clemenza appare dunque più un gesto di scherno che di pietà. Giovanni, questo il nome dell’unico sopravvissuto, è costretto ad abbandonare la Sicilia, ritrovandosi negli Stati Uniti del proibizionismo dove diventerà uno degli elementi migliori dell’FBI guidata dal celeberrimo John Edgar Hoover. Poliziesco, dramma e racconto di formazione si fondono e si sovrappongono in questa serie indimenticabile, disegnata da uno strepitoso Mandrafina (che proprio su Savarese portò alla maturazione definitiva il suo tratto). La prima serie di Wood a comparire in Italia fu dunque una vera rivelazione. E il relativo incipit era quanto di più rivoluzionario e avvincente ci fosse all’epoca nel mondo della “letteratura disegnata”, come Hugo Pratt amava definire i comics: “Lenta, pesante, la sera sta cadendo sul villaggio. Acuto, quasi aspro, l’odore degli aranci e dei limoni ha vinto il calore del giorno. Un presagio di frescura, che ha fatto aprire porte e finestre, come occhi neri nei volti impassibilmente bianchi delle case. Occhi vuoti, però. Perché nessuno questa sera passeggia per le strade e i vicoli del paese. E anche i pochi pastori ritardatari si affrettano a rinchiudere il gregge ed a tornare subito a casa. Sì, c’è odore di violenza in questa sera dell’estate 1920, a Graziano…”. La prosa di quel Wood maturo apre un nuovo ventaglio di possibilità su come si possano usare le didascalie in un fumetto. La solennità degli incipit delle sue opere più marcatamente avventurose convive con il profondo pathos che delinea gli aspetti più umani dei suoi eroi, ed il tutto viene condito con una grande capacità di evocare l’atmosfera di tempi storici lontani, così come di sensazioni e di sentimenti profondi. Il suo episodio della saga di Gilgamesh sulla morte di Cristo è giustamente passato alla Storia anche per tutto ciò: “Ora il cielo è grigio e le tenebre avanzano veloci, trasportate da un vento gelato. Il sole è una moneta nera. Il buio è totale. E nel buio, il coro di spavento che si alza dalla città. Il corpo sulla croce sembra senza peso…”. Ma anche passaggi come “Il verme della memoria che si contorce, a disagio” valgono più di pagine e pagine di descrizioni di libri sugli stessi argomenti. Wood, insomma, è un maestro di retorica, ma questa qualifica ha dovuto guadagnarsela sul campo e non si tratta di uno stile ideato a tavolino. Il grande protagonista delle storie di Wood è infatti l’Uomo e nell’esaltare le grandi imprese (ma anche le abissali miserie) del suo simile, è logico che Wood abbia sviluppato uno stile così acceso e partecipato. La fascinazione dello sceneggiatore per le vette di eroismo, lealtà e passione di cui è capace l’umanità è complementare all’abiezione ed alla crudeltà più profonde, anch’esse indiscutibilmente legate alla natura umana e perciò parimenti contemplate da Wood. Questa sua attenzione antropologica ha reso poco meno che vivi i suoi personaggi più riusciti, ed ha disseminato tutta la sua produzione di figure indimenticabili, che si tratti dell’antica Sumeria di Nippur di Lagash o di un apocalittico futuro in Gilgamesh, solo per citare due dei suoi maggiori capolavori. In particolare, Gilgamesh è una vera e propria epopea creata da Wood che gli venne ispirata dal millenario mito sumero di Gilgameš, vale a dire il primo poema epico della Storia dell'umanità che sia giunto a noi, denominato “Epopea di Gilgameš” e risalente presumibilmente al XII Secolo a.C. e comunque anteriormente all'VIII Secolo a.C. Nel racconto immaginario di Wood, Gilgamesh è in primis un uomo, re sumero della città di Uruk, al quale viene donata l'immortalità da un extraterrestre. Grazie ad essa, Wood fa vivere a Gilgamesh tutte le epoche della Storia dell'umanità, inseguendo sempre il sogno di un mondo migliore ma scontrandosi anche costantemente con la brutalità e la violenza insite nella natura umana. Gilgamesh giunge infine ai giorni nostri, ma una guerra atomica distrugge completamente la vita sulla Terra, costringendolo a cercare nello spazio una nuova possibilità per l’umanità. Tornando all’espediente delle didascalie in prima persona, questo elemento è piuttosto comune nelle serie di Wood, ma non mancano neppure occasionali “controcanti” in cui è un personaggio secondario a narrare le gesta del protagonista. Ed anche negli orditi più sofisticati, Wood non perde occasione di dare sfogo alla sua sferzante ironia. Lo stile vivo e coinvolgente di Wood è diventato presto il marchio di fabbrica dell’Eura, la casa editrice di “LancioStory”. Che si trattasse di tradurre Modesty Blaise o un fumetto franco-belga, l’adattamento ha quasi sempre puntato su una reinterpretazione “alla Wood”. Addirittura, al momento del varo della collana “Euracomix” i fumetti ristampati non solo hanno subito una compattazione ed un rimontaggio talvolta discutibili, ma sono stati riscritti di sana pianta nelle parti ritenute più invecchiate, ovvero le didascalie. Ma visto che gusti e stili non sono eterni, a metà degli Anni ’90 Wood ha dovuto rinnovarsi (probabilmente su indicazioni dell’Eura stessa) e le sue famose didascalie si sono fatte sempre più rare fino a scomparire quasi del tutto, allo scopo di favorire una lettura più immediata. Comunque sia, indipendentemente dalla maggiore o minore verbosità che li accompagna, i personaggi di Wood continuano a farsi campioni e portavoce dell’Uomo e della sua complessità. Indignandosi, entusiasmandosi, compiendo imprese eroiche ma anche mostrando senza vergogna le loro debolezze e i loro limiti. • Gli “infiniti ritorni” di Robin Wood Cesare Renzi, un giovane nobile sfaccendato della Venezia del XVI Secolo si ritrova, per caso fortuito, unico superstite al massacro della sua famiglia. Dovrà imparare a sopravvivere, schiavo dei musulmani, in un mondo ostile e, soprattutto, in un ambiente assai diverso da quello in cui è cresciuto: ciò, però, non gli impedirà di guadagnare un profondo rispetto e un’invidiabile posizione sociale in quello stesso ambiente così estraneo e lontano rispetto al suo, diventando il “Giannizzero Nero”. Il giovane nobile completa il suo percorso iniziatico, vendica la sua famiglia e le sue avventure continuano. Questa è, in estrema sintesi, la trama di Dago. Ma lo stesso canovaccio si può individuare pressoché invariato in moltissime altre opere di Wood (tendenzialmente, nei capolavori). Il poc’anzi descritto Saverese, Dax, Anders, Kayan, Chaco, Il Morto, Nan Hai, Mojado e Jackaroe sono praticamente calchi semantici di Dago: è sufficiente sostituire alla aristocrazia una élite economica, politica o culturale (i bianchi che governano nel West di Chaco o nella Cina dei primissimi anni del XX Secolo di Dax, il villaggio persiano di Kayan sopraffatto dai selvaggi unni di Attila del V Secolo d.C., la famiglia Savarese trasfigurata romanticamente in una cosca di “mafiosi buoni”…). E a livello narrativo, turchi, cinesi, indiani, americani e russi sono la stessa identica cosa: il duro campo d’addestramento nel quale l’eroe temprerà il suo fisico e il suo carattere. Questa traccia invariabile non ha ammesso nelle opere di Wood che due eccezioni, basate più sulle sfumature che sull’essenza: Mojado, un ragazzo messicano povero e orfano che diverrà pugile, e la tragedia della I Guerra Mondiale vista attraverso gli occhi di Anders, un semplice abitante di un villaggio di contadini dell’Est Europa, in effetti, non possono certo dirsi “aristocratici” ma, per il resto, il loro traumatico percorso formativo sarà identico a quello dei congeneri. Né mancano piccole diversità basate sulla metafora o sull’amplificazione: la “famiglia” de Il Morto è composta ovviamente dal suo reggimento, non da fratelli o cugini, e Chaco subisce ben due volte la genesi sopra esposta: prima gli indiani hanno massacrato la sua famiglia bianca, poi i bianchi (su ordine dei suoi stessi lontani parenti) hanno distrutto la sua tribù apache! A ben guardare, poi, alcuni di questi topoi si possono rinvenire isolatamente o parzialmente modificati anche in altre serie. Il Cosacco, ad esempio, è anch’egli vittima di una ritorsione contro la sua famiglia e anche lui sarà costretto per lungo tempo all’esilio. Essendo cosacco, poi, Sacha Veblin è per forza di cose una persona speciale (ed è pure aristocratico, in quanto figlio, seppure illegittimo, del principe Fedor Veblin, ma non è questo il punto). Mark, tutto sommato, è sopravvissuto al disastro atomico in quanto figlio dell’élite scientifica che lo aveva previsto. Kevin deve al confronto con il mondo islamico la sua maturazione. Ibañez è anch’egli un eroe spossessato costretto ingiustamente al vagabondaggio. E la lista potrebbe continuare ancora a lungo. Qualche decennio fa, i critici di stampo psicanalitico si sarebbero gongolati nell’estrapolare un’analisi clinica di Wood da tutti questi fantasmi ricorrenti (d’altronde è materiale che si presta molto bene ad un approccio del genere), ma è senz’altro più interessante capire come questi elementi abbiano fatto veramente la fortuna di Wood. Le primissime produzioni dello sceneggiatore erano caratterizzate da un approccio frammentario alla narrazione, sviluppandosi su episodi autoconclusivi perfettamente chiusi in sé. Almeno è quello che si evince da serie come il western Jackaroe e il comico Lei e io, entrambi del 1968, e dal fatto che l’epica saga di Nippur di Lagash, iniziata nel 1967, era un susseguirsi di nuove vicende basate sul protagonista di quello che in origine doveva essere solo una isolata storia autoconclusiva. Una narrazione più “aperta”, con una meta ben precisa da raggiungere (e quindi anche con uno sviluppo pilotato), sarebbe quindi un’introduzione successiva nel modus operandi di Wood. Possiamo dire che questo metodo “in progress” si afferma negli Anni ’70 con Savarese e poi con Dago. Wood aveva già mostrato la sua stoffa di narratore con le opere precedenti, ma le caratteristiche tematiche che abbiamo individuato prima furono decisive per la sua definitiva affermazione. L’elemento trainante della vendetta “giusta” dopo i patimenti subiti è molto affascinante e può esercitare una forte attrattiva soprattutto su un pubblico giovane, aiutato nell’identificazione dalle varie sfaccettature e complessità che Wood sa dare ai suoi personaggi. Se Superman e gli altri supereroi classici possono essere la cartina di tornasole delle aspirazioni e dei desideri inconfessabili dei maschi in fase prepuberale, gli eroi spossessati di Wood esercitano il massimo del loro carisma su chi l’adolescenza la sta vivendo o la sta già superando. Nonostante l’entusiasmo che Dago, Savarese e gli altri mettono nell’affermare la propria individualità e nel perseguire un ideale alto e universale, finiranno comunque ed inevitabilmente, da esseri umani quali sono, per integrarsi, per conformarsi a quella norma (spesso una qualche forma di Potere) che magari hanno passato la vita a combattere. Alla fine di Anders, per esempio, i due protagonisti diventano dei ricchi borghesi. Dopo le varie avventure che ha vissuto, Il Morto presterà finalmente fede al suo nome. La letale “bad girl” cinese Nan Hai si trasformerà nel suo stesso nemico… Quello che Robin Wood mette in atto in queste serie è, in fondo, la rappresentazione degli ultimi squarci di sana ribellione prima dell’arrivo della routine e del conformismo: questa costante possiamo ritrovarla persino nelle sue ricostruzioni storiche di Dracula, Merlino ed Ulster. E benché lo sceneggiatore abbia creato personaggi dalle psicologie più varie, sono probabilmente questi eroi un po’ crepuscolari quelli che più lo caratterizzano. Per cui il ricorso al medesimo schema di base (applicato alle latitudini ed alle epoche più diverse) diventa un vero marchio di fabbrica e non un semplice escamotage per vivere di rendita sul lavoro già svolto. • Robin Wood e la “continuità” del narrato Con il termine “continuity” si intende nel fumetto (soprattutto in quello supereroistico) la stretta coerenza interna che la narrazione deve seguire, per cui un dato evento può avere ripercussioni anche a distanza di tempo da un episodio all’altro ed un dato personaggio è localizzato temporalmente senza possibilità di modifiche. Tout se tiens, o almeno così dovrebbe essere: ignorare alcuni accadimenti o cambiare da un episodio all’altro le caratteristiche di un personaggio è considerato un errore. Per esteso, oggi il termine “stretta continuity” sta ad indicare un particolare lavoro sulla sceneggiatura teso ad imbastire una fitta trama di eventi perfettamente coerenti e collegati tra loro nel tempo. Robin Wood non si è mai curato più di tanto di inserire i suoi personaggi in un flusso continuo di avvenimenti che evolvessero col procedere delle serie. Si può dire anzi che, soprattutto nei primi tempi, ogni singolo episodio fosse autoconclusivo, e difatti di puntata in puntata Nippur, Jackaroe e gli altri saltano da una situazione e da un’ambientazione all’altra senza soluzione di continuità. La “fine posticcia” e senza vera conclusione di molte sue serie fa anch’essa propendere per l’immagine di un Wood incurante dei problemi di organizzazione e logica interna della narrazione. E invece non è affatto così. Wood ha semplicemente un modo molto personale (e praticamente unico) di intendere la continuity. Ce ne accorgiamo solo alla seconda lettura di una delle sue numerose serie “eterne” per lunghezza: quel personaggio che magari fa capolino solo per poche vignette o quell’evento di cui si parla di sfuggita sarà sotto i riflettori nell’episodio successivo. E di certo nel leggere le due storie a distanza di tempo non si coglie l’occasionale riferimento, ma una volta che la (ri)lettura procede spedita dall’inizio alla fine si ha la piacevole sensazione di assistere ad una concatenazione di eventi molto sottile, precisa e raffinata. La continuity di Wood non è “urlata” e lo sceneggiatore sa come soddisfare anche un eventuale lettore occasionale, offrendogli storie perfettamente chiuse in sé pur se cariche di riferimenti non invasivi a ciò che è successo prima e a ciò che succederà dopo. Si tratta insomma di un buon sistema per venire incontro al nuovo pubblico donando contemporaneamente a quello consolidato un ulteriore livello di lettura. Ci sono ovviamente casi più specifici. La penultima produzione di Wood, impostata su archi narrativi di tre episodi, mantiene una stretta coerenza interna e per capire tutta la storia nella sua pienezza non va persa una sola puntata. Un vero gioiello di architettura narrativa è la serie Danske (bella fantascienza postatomica disegnata da Enrique Villagran): esiste una trama generale che richiede un dato svolgimento, ma, nell’avvicinamento alla meta della storia, Danske vive situazioni complesse che si sviluppano in blocchi di tre episodi, e tuttavia ogni singolo episodio è perfettamente chiuso in sé, ha un inizio ed una fine pienamente soddisfacenti per il lettore. Anche Kayan ha uno svolgimento molto appagate per il lettore. Il protagonista deve uccidere l’arcinemico Attila, ma questo scopo lontanissimo viene avvicinato sempre di più, episodio dopo episodio, con la progressiva eliminazione dei luogotenenti del leggendario condottiero e sovrano unno. Sin dall’inizio sappiamo quindi bene che potremo goderci la morte di Attila solo dopo un sacco di passaggi (anche questo è il bello della narrativa popolare, no?), ma nel percorso verso l’ineluttabile finale le singole “tappe” non azzerano la vicenda ad ogni puntata bensì la arricchiscono e la sviluppano (per inciso, Kayan troverà ancora nuova linfa dopo il conseguimento del suo scopo, narrato peraltro in un episodio bellissimo e molto originale). Esistono però anche fattori meno funzionali allo sviluppo delle storie, che possono lasciare perplesso il lettore fedele. Al brutto escamotage della “fine posticcia” delle saghe già evidenziata, si aggiunge l’abitudine di Wood di inserire ogni tanto qualche flashback di situazioni a cui in realtà non abbiamo mai assistito, oppure di ripescare dal passato dei suoi protagonisti alcuni personaggi importanti, che però prima non si erano mai visti. Questo può lasciare al lettore la brutta impressione di essersi perso qualcosa, o di non aver capito bene un vecchio passaggio che però, in realtà, non ha mai letto perché non esiste. Diamo una scorsa esemplificativa alla continuity di Dago per chiarire meglio il concetto, e per vedere come Wood applica concretamente il suo particolare flusso di eventi. Inizialmente Dago è una serie apertissima che procede a “blocchi”. Esiste una trama generale (la vendetta contro gli assassini della famiglia), ma prima di arrivare al gran finale occorre che il personaggio “viva” e si sviluppi. Abbiamo quindi la serie di episodi dedicati alla schiavitù dell’eroe tra gli ottomani, storie legate da un filo apparentemente inesistente ma in realtà solidissimo. Nel quarto episodio, ad esempio, il pirata e ammiraglio musulmano Barbarossa cita di sfuggita il remo come destino per Dago, e nel quinto ritroviamo il personaggio proprio a bordo di una galera. Tra i due episodi esiste quindi un solidissimo legame di causa ed effetto, ma il primo non lascia proprio nulla in sospeso, ed il secondo è anch’esso perfettamente autonomo. Nel settimo episodio, Yussuff Bey viene confinato nel deserto in seguito ai suoi madornali errori alla guida di una flotta. Come inizio è assolutamente “neutro” ma il lettore abituale è libero di immaginare che l’episodio per cui Yussuff Bey è stato punito sia lo stesso narrato due puntate prima. Ma ovviamente Dago non è caratterizzato solo da questi efficaci concatenamenti. Dopo essersi riscattato dalla condizione di schiavo, Dago partirà alla volta di Costantinopoli facendo la conoscenza di Kerim Bey, una pirata saracena chiamata l’”Aquila del Mare”, che comparirà nella serie in ben otto episodi. In questa fase della saga, Dago ritroverà un suo compagno di schiavitù, tale Hans, un personaggio che però ci è perfettamente sconosciuto! Siamo già al 34° capitolo della serie, ma non si tratta di un errore dovuto al mancato arrivo in Italia di un episodio della saga: in seguito Wood avrebbe infatti escogitato altri espedienti simili, sino a imbastire veri e propri flashback che non hanno una vera corrispondenza nel passato editoriale della narrazione. Ciò ha permesso un simpatico omaggio di Wood ad un suo fan; esaurita la fase di Dago in compagnia di Ludovico di Giovanni de' Medici, detto Giovanni delle Bande Nere, un lettore si chiese perché lo sceneggiatore non avesse riportato una delle sequenze più eroiche della vita dello storico condottiero italiano. Wood, che non era a conoscenza di quel particolare aneddoto, lo citerà in un flashback mentre Dago racconta al giovane Juan le prodezze dell’eroe. Al pari di Kayan, anche Dago concede delle soddisfazioni ai suoi lettori fedeli senza farli penare troppo nell’attesa del conseguimento del suo scopo. Due dei quattro cospiratori che hanno sterminato la sua famiglia saranno infatti eliminati abbastanza presto (Kalandrakis nel 32° episodio e Ahmed Bey nel 51°) mentre il progressivo avvicinamento a Barazutti e Bertini viene ritmato da sequenze sparse in tutta la saga. Questa attenzione ai dettagli e alla loro organizzazione logica non impedisce però a Wood di generare “black-out” improvvisi: alcuni archi narrativi assai promettenti vengono infatti abortiti o dimenticati (che fine ha fatto, per esempio, il figlio che Dago avrebbe dovuto avere dalla nomade Salima?). E rarissimamente qualche granchio è comunque in agguato: durante una delle sequenze dell’”Equipo Dago” (il team di disegnatori, il cui unico membro in realtà era Carlos Pedrazzini, che l’Eura costituì per un certo periodo in quanto Alberto Salinas, creatore grafico del personaggio, non riusciva a stare al passo di Wood nel tratteggiare le trame da lui create), Orbashà ritorna in scena al fianco di Dago, cosa assai improbabile visto che in un episodio precedente aveva abbandonato l’amico morto. In conclusione, si può dire che la continuity di Wood, pur non strettissima, sia quanto di più piacevole per i lettori. Oggigiorno gli episodi settimanali sono impossibili da catalogare come “autoconclusivi” ed il piacere maggiore nella loro lettura viene dato dallo sviluppo della trama generale e dal conseguente “cliffhanger” (il “cliffhanger” è un espediente narrativo usato in letteratura, nel cinema e nelle serie televisive in cui la narrazione si conclude con una interruzione brusca in corrispondenza di un colpo di scena o di un altro momento culminante caratterizzato da una forte suspense; in genere un “cliffhanger” conclude un episodio con lo scopo di indurre nel lettore o nello spettatore una forte curiosità circa gli sviluppi successivi, e quindi il desiderio di acquistare il prossimo volume o di guardare la prossima puntata). I riassunti mangia-pagina di Wood degli episodi precedenti occupano ovviamente uno spazio direttamente proporzionale alla complessità degli eventi antecedenti, ma per fortuna la pubblicazione integrale di gran parte delle opere più importanti dello stesso Wood ripristinano il maltolto. L’assenza di scialbi “fill in” (episodi meramente riempitivi) si fa piacevolmente sentire, tanto più che con la cadenza di pubblicazione settimanale degli episodi, ogni mese abbiamo oltre 50 pagine di Dago (a volte addirittura sufficienti a concludere un ciclo). • Un bilancio artistico Robin Wood ha dimostrato di prediligere come genere l’avventura, meglio se ambientata in un preciso contesto storico che solitamente sa ricreare con particolare credibilità. Su questo, egli stesso disse: “La Storia è una cosa meravigliosa. Io sono fanatico della Storia, essa è straordinaria”. Non a caso, il filone “storico-avventuroso” costituisce addirittura più dei ¾ della sua produzione totale e quasi tutte le sue opere migliori si inseriscono in questo gruppo. Anche le rare incursioni nel fantasy possono venir catalogate accanto a Dago e a Nippur: i superlativi Merlino e Ulster, ad esempio, non sono interamente frutto della fantasia di Wood ma rappresentano delle ulteriori interpretazioni di materiale letterario e tradizionale preesistente. Comunque sia, per Wood tutto era entusiasmo e cammino da percorrere. Quando Dago festeggiò i 30 anni di vita editoriale, Wood ebbe emblematicamente a dire: “Nonostante io scriva Dago da tre decenni, la sua strada è appena iniziata. È appena iniziata perché ogni giorno troviamo nuove cose da narrare. Vedi… La fantasia è un cane che ti mangia vivo. Dago l’ho cominciato 30 anni fa, ma oggi io continuo davvero a sentirlo come nuovo e come se fosse iniziato ieri. È iniziato ieri? Beh, allora dico che oggi lo faremo meglio. Ho una gran passione per questo personaggio. Questo è amore, e Dago è un figlio. Un figlio un po’ troppo grande e a volte cattivo, ma i figli non sono mai perfetti. E comunque, Dago è semplicemente umano. Non è un supereroe, non è di natura cattivo, è tutto questo insieme. Può essere a volte un eroe e talvolta anche cattivo. Soprattutto, però, Dago è un uomo. Al quale, come tantissimi altri, piace anche, di sera, prendere un po’ di vino, prosciutto, pane e guardare il mare. Uno che si innamora, un poco sì e un poco no; l’amore è una cosa personale di ogni uomo e di ogni donna. Dago, fondamentalmente, è un uomo buono, ma può essere crudele contro un uomo crudele, mai però contro uno che non si può difendere. Dago è diventato famoso proprio perché è umano e semplice. Io morirò un giorno, ma Dago non rischia quello. Dago è una cultura umana. Come ho già detto, lui è un eroe senza essere un supereroe poiché, in primis, è un essere umano. È un uomo di oggi, un uomo di ieri, un uomo di sempre, con pregi e difetti del tutto naturali e che appartengono a tutti noi. Per ciò che poi riguarda la mia carriera, io scrivo, niente di più straordinario di questo. Lo faccio con piacere, lo faccio tutti i giorni; quando non lavoro per tre o quattro giorni non mi sento bene, devo fare qualcosa. Sono fortunato, ho trovato un lavoro che mi piace ogni giorno di più, amo il mio pubblico e senza il pubblico non esisto. Il pubblico mi ha fatto, non sono io ad aver fatto il pubblico. Per questo sono dedito a loro e faccio il mio meglio per essere degno di loro”. ROBIN WOOD (Colonia Nueva Australia, 25 gennaio 1944 – Encarnación, 17 ottobre 2021) In loving memory 🙏❤️Edited by masoki - 20/10/2021, 08:40
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